Il racconto di Giorgia Tribuiani, tratto da “Cronache degli artisti e dei commedianti” (Tespi 2008), presenta una filosofia di fondo molto simile a quella del protagonista di “Vangelo secondo Carlo”. Un modo diverso di affrontare lo stesso tema.
Gli sembrava di esistere lui solo e che il mondo consistesse soltanto nella sua immaginazione, che nulla ci fosse al di fuori di lui, e di essere il dannato in eterno, Satana; tutto solo con le sue torturanti fantasie (Lenz, Georg Büchner)
Sedette alla scrivania e allungò una mano verso il pacco di fogli della Fabriano, dai bordi stropicciati per l’usura: tastò all’interno, mentre schiacciava l’indice dell’altra mano contro un interruttore sul muro, per accendere la luce, e “Che diavolo!”, esclamò, costatando che i fogli erano finiti e il pacco era vuoto. Lo prese, lo accartocciò, lo gettò nel cestino sotto la scrivania. Poi aprì un cassetto e ne estrasse dei fogli scribacchiati, documenti, mozziconi di poesie e aborti di lettere; li esaminò ad uno ad uno, lasciando sul tavolo quelli che – essendo quasi del tutto intatti – passavano la selezione. Alla fine rimise il mazzo scomposto nel cassetto e strappò le parti scritte di tutti quei fogli: ne erano sei in tutto, di diversa grandezza poiché diverse furono le mutilazioni. Ma doveva scrivere la lettera. Doveva. Assaggiò l’unghia del pollice destro con un piccolo morso timido. Poi la guardò, le tese un agguato, la serrò tra gli incisivi e dopo averla storta ben bene la staccò: qualche istante dopo i resti emersero tra le sue labbra. Li prese tra indice e pollice, li osservò e li buttò nel cestino con noncuranza. E passò all’indice, mentre con l’altra mano cercava una matita nel portapenne: la trovò, la aguzzò, spezzò la punta, imprecò, la aguzzò di nuovo, più lentamente, in modo da non spezzarla di nuovo, vide la mina rotolare una seconda volta sulla scrivania e dopo un’altra serie di imprecazioni buttò la matita per terra e scelse un pastello blu già temperato. Prese quindi uno dei fogli e cominciò a scrivere.
Caro Lucio,
ti scrivo perché sei l’unica persona di cui io riesca ancora a sentire l’esistenza. Sempre più spesso, infatti, sento che tutti gli altri intorno a me non esistano. Sento che tutto ciò che ho intorno sia una mia creazione e che solo io viva in un mondo creato da me. Mi sento una specie di dio, ma questa cosa non mi fa piacere: mi sta facendo impazzire. Ogni volta che parlo con qualcuno, sento che quel qualcuno non esiste e allora non ha più valore nessun discorso con nessuno. Riesco a parlare solo con me stesso.
Lucio, non prendermi per pazzo, non sto filosofando. Non sto parlando di inganno dei sensi o roba di questo tipo, ma ho la netta sensazione che gli altri esistano solo quando ci sono io. Se mi trovo in sala da pranzo a parlare con i miei e poi vado in biblioteca a studiare, i miei allora non esistono più.
Quando ero piccolo e andavo alle medie, chiedevo ai miei genitori di comprarmi delle gomme da masticare o dei libri, perché credevo che quei regali fossero la sicurezza che loro avevano una vita anche lontano da me, anche mentre non li vedevo. Poi però capii che anche libri e gomme da masticare esistevano solo quando c’ero io, e che quando i miei genitori apparivano, nelle loro mani si materializzavano anche i miei regali. Così non ebbi più alcuna prova della loro esistenza e trascorsi tutto il mio tempo in un paese inesistente di un universo inesistente.
Ora non ce la faccio più. Mi sento sempre più spesso l’unica persona viva in questo mondo finto creato da me e non ho più la forza di vivere nell’illusione. Così scrivo a te, Lucio, perché anche se spesso dubito anche della tua esistenza, tu sei l’unico che mi abbia mai capito, l’unico che abbia mai provato questa mia stessa sensazione e io ho bisogno di una persona reale a cui scrivere e non di creazioni. Mi ero creato un mondo di storie inventate, scrivendo storie e racconti, per non pensare a questa vita fittizia, per cacciarmi in qualcosa che so essere finto fin dall’inizio. Non è giusto far vivere un uomo per fargli scoprire, all’età di tredici anni, che intorno ha solo sue creazioni. Anche le mie storie sono finte, ma è una finzione leale: so dall’inizio che non esistono, non cercano di ingannarmi con la loro esistenza.
Ma adesso neanche questo mi basta più. Ho bisogno di qualcuno che mi ascolti davvero e che viva davvero e quindi scrivo a te, Lucio, con la consapevolezza che tu mi risponderai sempre, perché anche tu senti di non avere nessuno di reale con cui parlare. Forse insieme supereremo tutta questa angoscia che ci opprime davanti al nulla.
Si prese la testa tra le mani e rilesse le ultime righe. Aveva scritto che cominciava a dubitare anche dell’esistenza del destinatario della sua lettera: automaticamente la mano destra andò alla gomma. Doveva cancellarlo? No, si disse. Lasciò la gomma. Non c’era bisogno di cancellarlo. Il suo interlocutore avrebbe capito di certo. Però la cosa lo angosciò. Prese la gomma, cancellò la frase e pensò a cosa inserire in quel buco, tra le due parti della lettera divise dallo spazio bianco. Non gli venne in mente niente e cominciò a riscrivere la frase, ma la mano gli tremava e il pastello si spuntò. “Pastello deficiente!”, gridò allora alla matita colorata e alla stanza vuota. “Deficiente, deficiente, pastello deficiente!” E lo gettò contro lo specchio che sovrastava il letto. Poi riscrisse la frase con un pastello rosso. E quando ebbe finito cercò il pastello blu sul pavimento. Non lo trovò. Pensò che se non poteva vedere il pastello blu, allora il pastello blu non esisteva. Volle ritrovarlo, ma non si alzò, perché prima che potesse farlo gli venne in mente un altro pensiero: non vedeva nemmeno le sue gambe, che erano sotto la scrivania. Allora le cacciò fuori, ruotando sulla sedia girevole. E gli venne in mente che non vedeva nemmeno il suo naso, la sua bocca, i suoi occhi e che non potevano esistere se non li vedeva. Allora corse davanti allo specchio e si guardò a lungo negli occhi e si scrutò tutto, ma non poteva vedere la sua intera figura, perché la lastra era troppo piccola. Allora lo prese il panico e si avventò sulla scrivania: prese un altro foglio e lo riempì con due parole ripetute all’infinito:
Io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto...
Continuò per una pagina e mezza. Poi si fermò, col fiatone. Osservò la pagina e quella lo terrorizzò: la prese, la accartocciò, la buttò nel secchio. Poi la riprese, la fece in mille pezzi e la buttò di nuovo. Riprese la matita rossa tra le mani e si sentì inquieto: prese il secchio, lo portò fuori dalla stanza, rientrò e si chiuse a chiave. Finalmente ricominciò a scrivere.
Lucio, ma tu sei proprio sicuro di esistere? Come ti ho scritto, a volte finisco per dubitare anche della tua esistenza e allora ti guardo, ti guardo a lungo per cercare di capire fino a che punto sei reale...
A volte, per sentire la mia esistenza, faccio in modo che la mia ragazza – che è la persona/illusione alla quale tengo di più al mondo – si arrabbi con me. Lo faccio perché quando sto male dimentico questi pensieri, non posso pensare di non esistere, mentre soffro.
Ma poi torna tutto come prima e capisco di essermi illuso. Forse che dopo la morte ci sia la vera esistenza? Non so. So solo che quando penso di non esistere nemmeno io, non trovo pace neppure nello scriverti. Ho paura, Lucio. Ho terrore, mia più grande illusione...
Posò il pastello rosso e strinse nella morsa degli incisivi l’unghia del mignolo della mano sinistra. La tritò. Le fece fare capolino tra le labbra, se la sputò sul palmo, la gettò sotto la scrivania con l’idea di buttarla nel cestino, ma il cestino non c’era e quella cadde per terra. Sotto la scrivania. Sotto la scrivania, dove tutto smetteva di esistere. Non vedeva più l’unghia, così l’unghia non esisteva. Allora si chinò, la raccolse e se la rimise sul palmo. Si alzò di nuovo. Poi abbassò lo sguardo e si accorse che la scrivania nascondeva per metà anche una delle sue pantofole: schiacciò la parte visibile di pantofola con la punta del piede e la tirò via. E ripensò di nuovo che non vedeva i suoi occhi e il suo naso e la sua bocca e allora buttò l’unghia per terra e corse di nuovo allo specchio e si guardò a lungo, si scrutò e prese una sedia e vi salì sopra per vedersi tutto, ma non ci riuscì e allora di nuovo lo presero l’angoscia e il vuoto, perché tutto ciò che aveva intorno era sua creazione, solo sua creazione e nient’altro, viveva nel nulla, nella sua più grande angoscia! Scese dalla sedia, corse alla scrivania, prese la lettera tra le mani e se la strinse al petto: voleva dormire, per non pensare più a tutte quelle cose, ma prima avrebbe imbustato la lettera e l’avrebbe spedita. Aprì dunque il cassetto e cercò le buste, ma le mani gli tremavano troppo e non riusciva a separare i fogli gli uni dagli altri, così si fece prendere dal panico ed estrasse il cassetto e rovesciò tutte le carte e le lettere e le buste e i documenti per terra e quelli scesero giù con un fruscio e si confusero e lui si gettò a terra e lasciò il cassetto vuoto sul parquet e si mise a frugare tra le carte alla ricerca di una busta e la trovò. Si chinò di nuovo, per raccogliere le lettere, ma gli venne in mente che se le avesse raccolte e messe nel cassetto, nell’istante in cui avrebbe chiuso il cassetto quelle avrebbero cessato di esistere, e il pensiero della loro inesistenza lo avrebbe riportato al pensiero dell’inesistenza della sua faccia – che già si preparava a tendergli l’agguato, oh, era già così vicino! - e allora lasciò perdere e lasciò tutte le carte per terra: vergò il suo nome sulla busta e quello del destinatario, Lucio Mattei, così si alzò dalla scrivania e uscì dalla stanza.
Aprì la porta e incontrò il cestino, che era lì sull’uscio ad aspettarlo: quell’apparizione lo innervosì; tirò un calcio al malcapitato e ne rovesciò il contenuto sul pavimento, ma non se ne curò. Proseguì deciso verso la porta di casa e pensò ai poveri pastelli che ora avevano cessato di esistere e alla povera scrivania e alle carte rovesciate per terra, ma scacciò quel pensiero ed uscì in strada, dove diede vita ad una viuzza interna tempestata di scure gomme da masticare fossilizzate, alla tabaccheria davanti al portone, ad una coppietta con una carrozzella e ai pettegolezzi di due quindicenni tra un cestino dell’immondizia e i tavolini di un bar: vide tutte quelle cose e pensò che se esistevano era grazie a lui che le immaginava e guardò la busta che aveva in mano e pensò al destinatario della lettera. Camminò in fretta, accelerò il passo, perché dalla busta piena di frutta di una vecchia vide cadere una pera, la vide rotolare sulla strada e poi dietro una casa, e mentre con lo sguardo seguiva la vecchia che cercava di riprendersi la sua pera senza far cadere tutto il resto della frutta pensò che la pera non esisteva più e allora di nuovo sentì il panico e guardò le quindicenni ed erano una sua creazione e le case erano una sua creazione e la lettera che stringeva al petto era... no! La lettera non doveva essere una sua creazione! La lettera esiste!, urlò a se stesso senza crederci neanche un istante, e accelerò il passo prima di potersi contraddire e svoltò in un vicolo e finalmente vide la grande cassetta rossa per imbucare la posta e sentì un tuffo al cuore e accelerò e i pantaloni gli calarono sui fianchi e accelerò e si mise la lettera in bocca per tirarli su e accelerando afferrò la cintura e la alzò oltre la vita e i pantaloni furono di nuovo su e accelerò e guardò l’orologio perché era tardi e lui voleva arrivare alla cassetta rossa della posta prima del postino perché la busta doveva essere portata alle poste il giorno stesso e allora accelerò e quasi si mise a correre e anzi si mise proprio a correre, sì, corse fino alla cassetta delle lettere con il sudore freddo che gli scivolava sulle tempie e una vecchia creata da lui e due bambini creati da lui e un uomo col cane al guinzaglio creati da lui si girarono a guardarlo e lui raggiunse la cassetta della posta e ci ficcò dentro la lettera, con il cuore che gli batteva fortissimo la infilò dentro e sentì che stava per scoppiare, la infilò e tirò un sospiro di sollievo e sentì che quasi avrebbe potuto svenire, ma la lettera era dentro, prima che arrivasse il postino era dentro, quel giorno sarebbe arrivata alle poste perché era lì dentro, era dentro, era dentro.
Rimase a fissare la cassetta delle lettere per qualche istante. Poi, quando la vecchia, i due bambini e l’uomo col cane se ne furono andati, Lucio Mattei smise di guardare la cassetta rossa delle lettere e si incamminò verso casa.
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