"Vangelo secondo Carlo", il primo romanzo di Cristiano Della Bella. Un velocissimo noir di blunottiana ispirazione. Tespi Editore.

domenica 25 gennaio 2009

Max Casacci

Il seguente passo, tratto dal romanzo “Vangelo secondo Carlo”, riporta un piccolo omaggio dedicato a Casacci dei Subsonica.

“…Li si vede spesso in giro assieme. Carlo e Lisa passeggiano mano nella mano come due innamorati. Lui la porta al Museo Egizio, la fa salire sulla Mole, vanno alla basilica di Superga dove, nei giorni limpidi, si può abbracciare con un solo colpo d’occhio tutta la città. Una sera vengono visti da Giancarlo, locale trendy sui Murazzi del Po, in pieno centro. Siedono al tavolo con Massimiliano Casacci, chitarrista dei Subsonica, e due ragazze che erano con lui.

«Manco so come facesse di nome», minimizza Casacci. «Lo conoscevo appena, un tipo strano, non mi piaceva.»

Sembra una coppia normale, con dei distinguo. Lei continua a vivere in via Nizza, dove l’ha piazzata lui. Spesso litigano. Un giorno lei rimedia un occhio nero…”

Utilizzare un personaggio vero ed esistente, conosciuto da tutti, è stato un espediente per conferire alla vicenda un realismo più vivo. Credo che fare narrativa, inventare storie, dare gas alla fantasia, sia ancora più stimolante se questa finzione riesce ad interagire, seppure in modo fittizio, con la nostra realtà, la mia e la tua. Ancora di più in un romanzo che gioca a fare il verso all’inchiesta giornalistica.

Ho scelto Max Casacci perché rappresentativo della città in cui è ambientata la vicenda e anche per omaggiare la sua figura: mi sembrava giusto concedere a lui, che mi ha fatto ballare con la sua musica, l’onore di apparire in un romanzo. Di solito succede ai più grandi e, secondo me, lui se lo merita.

Occorre precisare che non conosco personalmente il chitarrista dei Subsonica e dunque il Casacci citato nel libro si riferisce alla celebrità che tutti conoscono e non al Casacci privato che, come è giusto che sia, deve restare tale.

mercoledì 21 gennaio 2009

"Lettera per Lucio Mattei" di Giorgia Tribuiani


Il racconto di Giorgia Tribuiani, tratto da “Cronache degli artisti e dei commedianti” (Tespi 2008), presenta una filosofia di fondo molto simile a quella del protagonista di “Vangelo secondo Carlo”. Un modo diverso di affrontare lo stesso tema.


Gli sembrava di esistere lui solo e che il mondo consistesse soltanto nella sua immaginazione, che nulla ci fosse al di fuori di lui, e di essere il dannato in eterno, Satana; tutto solo con le sue torturanti fantasie (Lenz, Georg Büchner)

Sedette alla scrivania e allungò una mano verso il pacco di fogli della Fabriano, dai bordi stropicciati per l’usura: tastò all’interno, mentre schiacciava l’indice dell’altra mano contro un interruttore sul muro, per accendere la luce, e “Che diavolo!”, esclamò, costatando che i fogli erano finiti e il pacco era vuoto. Lo prese, lo accartocciò, lo gettò nel cestino sotto la scrivania. Poi aprì un cassetto e ne estrasse dei fogli scribacchiati, documenti, mozziconi di poesie e aborti di lettere; li esaminò ad uno ad uno, lasciando sul tavolo quelli che – essendo quasi del tutto intatti – passavano la selezione. Alla fine rimise il mazzo scomposto nel cassetto e strappò le parti scritte di tutti quei fogli: ne erano sei in tutto, di diversa grandezza poiché diverse furono le mutilazioni. Ma doveva scrivere la lettera. Doveva. Assaggiò l’unghia del pollice destro con un piccolo morso timido. Poi la guardò, le tese un agguato, la serrò tra gli incisivi e dopo averla storta ben bene la staccò: qualche istante dopo i resti emersero tra le sue labbra. Li prese tra indice e pollice, li osservò e li buttò nel cestino con noncuranza. E passò all’indice, mentre con l’altra mano cercava una matita nel portapenne: la trovò, la aguzzò, spezzò la punta, imprecò, la aguzzò di nuovo, più lentamente, in modo da non spezzarla di nuovo, vide la mina rotolare una seconda volta sulla scrivania e dopo un’altra serie di imprecazioni buttò la matita per terra e scelse un pastello blu già temperato. Prese quindi uno dei fogli e cominciò a scrivere.

Caro Lucio,

ti scrivo perché sei l’unica persona di cui io riesca ancora a sentire l’esistenza. Sempre più spesso, infatti, sento che tutti gli altri intorno a me non esistano. Sento che tutto ciò che ho intorno sia una mia creazione e che solo io viva in un mondo creato da me. Mi sento una specie di dio, ma questa cosa non mi fa piacere: mi sta facendo impazzire. Ogni volta che parlo con qualcuno, sento che quel qualcuno non esiste e allora non ha più valore nessun discorso con nessuno. Riesco a parlare solo con me stesso.

Lucio, non prendermi per pazzo, non sto filosofando. Non sto parlando di inganno dei sensi o roba di questo tipo, ma ho la netta sensazione che gli altri esistano solo quando ci sono io. Se mi trovo in sala da pranzo a parlare con i miei e poi vado in biblioteca a studiare, i miei allora non esistono più.

Quando ero piccolo e andavo alle medie, chiedevo ai miei genitori di comprarmi delle gomme da masticare o dei libri, perché credevo che quei regali fossero la sicurezza che loro avevano una vita anche lontano da me, anche mentre non li vedevo. Poi però capii che anche libri e gomme da masticare esistevano solo quando c’ero io, e che quando i miei genitori apparivano, nelle loro mani si materializzavano anche i miei regali. Così non ebbi più alcuna prova della loro esistenza e trascorsi tutto il mio tempo in un paese inesistente di un universo inesistente.

Ora non ce la faccio più. Mi sento sempre più spesso l’unica persona viva in questo mondo finto creato da me e non ho più la forza di vivere nell’illusione. Così scrivo a te, Lucio, perché anche se spesso dubito anche della tua esistenza, tu sei l’unico che mi abbia mai capito, l’unico che abbia mai provato questa mia stessa sensazione e io ho bisogno di una persona reale a cui scrivere e non di creazioni. Mi ero creato un mondo di storie inventate, scrivendo storie e racconti, per non pensare a questa vita fittizia, per cacciarmi in qualcosa che so essere finto fin dall’inizio. Non è giusto far vivere un uomo per fargli scoprire, all’età di tredici anni, che intorno ha solo sue creazioni. Anche le mie storie sono finte, ma è una finzione leale: so dall’inizio che non esistono, non cercano di ingannarmi con la loro esistenza.

Ma adesso neanche questo mi basta più. Ho bisogno di qualcuno che mi ascolti davvero e che viva davvero e quindi scrivo a te, Lucio, con la consapevolezza che tu mi risponderai sempre, perché anche tu senti di non avere nessuno di reale con cui parlare. Forse insieme supereremo tutta questa angoscia che ci opprime davanti al nulla.

Si prese la testa tra le mani e rilesse le ultime righe. Aveva scritto che cominciava a dubitare anche dell’esistenza del destinatario della sua lettera: automaticamente la mano destra andò alla gomma. Doveva cancellarlo? No, si disse. Lasciò la gomma. Non c’era bisogno di cancellarlo. Il suo interlocutore avrebbe capito di certo. Però la cosa lo angosciò. Prese la gomma, cancellò la frase e pensò a cosa inserire in quel buco, tra le due parti della lettera divise dallo spazio bianco. Non gli venne in mente niente e cominciò a riscrivere la frase, ma la mano gli tremava e il pastello si spuntò. “Pastello deficiente!”, gridò allora alla matita colorata e alla stanza vuota. “Deficiente, deficiente, pastello deficiente!” E lo gettò contro lo specchio che sovrastava il letto. Poi riscrisse la frase con un pastello rosso. E quando ebbe finito cercò il pastello blu sul pavimento. Non lo trovò. Pensò che se non poteva vedere il pastello blu, allora il pastello blu non esisteva. Volle ritrovarlo, ma non si alzò, perché prima che potesse farlo gli venne in mente un altro pensiero: non vedeva nemmeno le sue gambe, che erano sotto la scrivania. Allora le cacciò fuori, ruotando sulla sedia girevole. E gli venne in mente che non vedeva nemmeno il suo naso, la sua bocca, i suoi occhi e che non potevano esistere se non li vedeva. Allora corse davanti allo specchio e si guardò a lungo negli occhi e si scrutò tutto, ma non poteva vedere la sua intera figura, perché la lastra era troppo piccola. Allora lo prese il panico e si avventò sulla scrivania: prese un altro foglio e lo riempì con due parole ripetute all’infinito:

Io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto, io esisto...

Continuò per una pagina e mezza. Poi si fermò, col fiatone. Osservò la pagina e quella lo terrorizzò: la prese, la accartocciò, la buttò nel secchio. Poi la riprese, la fece in mille pezzi e la buttò di nuovo. Riprese la matita rossa tra le mani e si sentì inquieto: prese il secchio, lo portò fuori dalla stanza, rientrò e si chiuse a chiave. Finalmente ricominciò a scrivere.

Lucio, ma tu sei proprio sicuro di esistere? Come ti ho scritto, a volte finisco per dubitare anche della tua esistenza e allora ti guardo, ti guardo a lungo per cercare di capire fino a che punto sei reale...

A volte, per sentire la mia esistenza, faccio in modo che la mia ragazza – che è la persona/illusione alla quale tengo di più al mondo – si arrabbi con me. Lo faccio perché quando sto male dimentico questi pensieri, non posso pensare di non esistere, mentre soffro.

Ma poi torna tutto come prima e capisco di essermi illuso. Forse che dopo la morte ci sia la vera esistenza? Non so. So solo che quando penso di non esistere nemmeno io, non trovo pace neppure nello scriverti. Ho paura, Lucio. Ho terrore, mia più grande illusione...

Posò il pastello rosso e strinse nella morsa degli incisivi l’unghia del mignolo della mano sinistra. La tritò. Le fece fare capolino tra le labbra, se la sputò sul palmo, la gettò sotto la scrivania con l’idea di buttarla nel cestino, ma il cestino non c’era e quella cadde per terra. Sotto la scrivania. Sotto la scrivania, dove tutto smetteva di esistere. Non vedeva più l’unghia, così l’unghia non esisteva. Allora si chinò, la raccolse e se la rimise sul palmo. Si alzò di nuovo. Poi abbassò lo sguardo e si accorse che la scrivania nascondeva per metà anche una delle sue pantofole: schiacciò la parte visibile di pantofola con la punta del piede e la tirò via. E ripensò di nuovo che non vedeva i suoi occhi e il suo naso e la sua bocca e allora buttò l’unghia per terra e corse di nuovo allo specchio e si guardò a lungo, si scrutò e prese una sedia e vi salì sopra per vedersi tutto, ma non ci riuscì e allora di nuovo lo presero l’angoscia e il vuoto, perché tutto ciò che aveva intorno era sua creazione, solo sua creazione e nient’altro, viveva nel nulla, nella sua più grande angoscia! Scese dalla sedia, corse alla scrivania, prese la lettera tra le mani e se la strinse al petto: voleva dormire, per non pensare più a tutte quelle cose, ma prima avrebbe imbustato la lettera e l’avrebbe spedita. Aprì dunque il cassetto e cercò le buste, ma le mani gli tremavano troppo e non riusciva a separare i fogli gli uni dagli altri, così si fece prendere dal panico ed estrasse il cassetto e rovesciò tutte le carte e le lettere e le buste e i documenti per terra e quelli scesero giù con un fruscio e si confusero e lui si gettò a terra e lasciò il cassetto vuoto sul parquet e si mise a frugare tra le carte alla ricerca di una busta e la trovò. Si chinò di nuovo, per raccogliere le lettere, ma gli venne in mente che se le avesse raccolte e messe nel cassetto, nell’istante in cui avrebbe chiuso il cassetto quelle avrebbero cessato di esistere, e il pensiero della loro inesistenza lo avrebbe riportato al pensiero dell’inesistenza della sua faccia – che già si preparava a tendergli l’agguato, oh, era già così vicino! - e allora lasciò perdere e lasciò tutte le carte per terra: vergò il suo nome sulla busta e quello del destinatario, Lucio Mattei, così si alzò dalla scrivania e uscì dalla stanza.

Aprì la porta e incontrò il cestino, che era lì sull’uscio ad aspettarlo: quell’apparizione lo innervosì; tirò un calcio al malcapitato e ne rovesciò il contenuto sul pavimento, ma non se ne curò. Proseguì deciso verso la porta di casa e pensò ai poveri pastelli che ora avevano cessato di esistere e alla povera scrivania e alle carte rovesciate per terra, ma scacciò quel pensiero ed uscì in strada, dove diede vita ad una viuzza interna tempestata di scure gomme da masticare fossilizzate, alla tabaccheria davanti al portone, ad una coppietta con una carrozzella e ai pettegolezzi di due quindicenni tra un cestino dell’immondizia e i tavolini di un bar: vide tutte quelle cose e pensò che se esistevano era grazie a lui che le immaginava e guardò la busta che aveva in mano e pensò al destinatario della lettera. Camminò in fretta, accelerò il passo, perché dalla busta piena di frutta di una vecchia vide cadere una pera, la vide rotolare sulla strada e poi dietro una casa, e mentre con lo sguardo seguiva la vecchia che cercava di riprendersi la sua pera senza far cadere tutto il resto della frutta pensò che la pera non esisteva più e allora di nuovo sentì il panico e guardò le quindicenni ed erano una sua creazione e le case erano una sua creazione e la lettera che stringeva al petto era... no! La lettera non doveva essere una sua creazione! La lettera esiste!, urlò a se stesso senza crederci neanche un istante, e accelerò il passo prima di potersi contraddire e svoltò in un vicolo e finalmente vide la grande cassetta rossa per imbucare la posta e sentì un tuffo al cuore e accelerò e i pantaloni gli calarono sui fianchi e accelerò e si mise la lettera in bocca per tirarli su e accelerando afferrò la cintura e la alzò oltre la vita e i pantaloni furono di nuovo su e accelerò e guardò l’orologio perché era tardi e lui voleva arrivare alla cassetta rossa della posta prima del postino perché la busta doveva essere portata alle poste il giorno stesso e allora accelerò e quasi si mise a correre e anzi si mise proprio a correre, sì, corse fino alla cassetta delle lettere con il sudore freddo che gli scivolava sulle tempie e una vecchia creata da lui e due bambini creati da lui e un uomo col cane al guinzaglio creati da lui si girarono a guardarlo e lui raggiunse la cassetta della posta e ci ficcò dentro la lettera, con il cuore che gli batteva fortissimo la infilò dentro e sentì che stava per scoppiare, la infilò e tirò un sospiro di sollievo e sentì che quasi avrebbe potuto svenire, ma la lettera era dentro, prima che arrivasse il postino era dentro, quel giorno sarebbe arrivata alle poste perché era lì dentro, era dentro, era dentro.

Rimase a fissare la cassetta delle lettere per qualche istante. Poi, quando la vecchia, i due bambini e l’uomo col cane se ne furono andati, Lucio Mattei smise di guardare la cassetta rossa delle lettere e si incamminò verso casa.

venerdì 16 gennaio 2009

Dalla S alla C


Il romanzo si apre con il ritrovamento del cadavere del protagonista chiuso all’interno della propria auto. La macchina, in origine, era una Mercedes SLK. Sarebbe la vettura utilizzata come safety car nei gran premi di F1.

Ma non andava bene.

Non andava bene perché l’autore si è accorto, proprio nei giorni di correzione delle bozze, che la SLK ha solo i due posti davanti. Un piccolo particolare che, durante la documentazione precedente, era stato trascurato.

Nel romanzo l’abitacolo della vettura, cioè la scena del ritrovamento, viene descritto in modo molto dettagliato. Nella narrazione si parla di cosa viene repertato sui sedili posteriori. Ma, s’è detto, la SLK non ha un sedile posteriore. Certo, una soluzione sarebbe stata modificare radicalmente questa descrizione. Ma, nel finale del libro, c’è l’intera scena del delitto. Mantenere la SLK significava rimettere in discussione parecchie cose che, nei meccanismi narrativi, funzionavano bene.

Non solo.

Al momento di prendere la decisione Marco Corona aveva già realizzato l’illustrazione della copertina che ritrae la parte posteriore della SLK e che, sebbene stilizzata, è però riconoscibile.

Lasciare le cose come stavano non era possibile perché, per il gioco stesso del romanzo che pretende un rigoroso realismo, i particolari diventano molto importanti.

L’autore è tornato dunque a navigare in internet, scartabellando tra siti e forum dedicati, alla ricerca di un modello simile, in modo da non pregiudicare del tutto l’immagine in copertina, ma che fosse disponibile nella versione a quattro posti. La scelta è caduta sulla Mercedes CLK che, anche se leggermente diversa, ha una linea che ricalca la SLK.

Diciamo che se i meccanismi narrativi del romanzo sono i cavoli e la copertina blu di Corona è una capra, il passaggio dalla S di SLK alla C di CLK ha permesso di salvare più o meno entrambi.

lunedì 12 gennaio 2009

18esimo post: il 18 alle 18


Domenica 18 alle ore 18 al circolo Ratatoj di Saluzzo ci sarà la presentazione del romanzo “Vangelo secondo Carlo”.

venerdì 9 gennaio 2009

Olrac odnoces Olegnav


Cristiano Della Bella e Tespi, rispettivamente autore ed editore del romanzo “Vangelo secondo Carlo”, intendono smentire categoricamente alcune voci, apparse in web, riguardo presunti poteri “magici e sovrannaturali” del romanzo.

Sembra infatti che certi cosiddetti “sensitivi” sostengano la tesi che alcune frasi del libro, lette per tre volte a voce alta davanti ad uno specchio, possano aprire varchi spazio-temporali per mettere in contatto la nostra realtà con altri dove e nuovi quando.

Non solo.

Un avvocato abruzzese avrebbe sporto denuncia perché la figlia della sua cliente, leggendo il romanzo al contrario, sarebbe finita in ospedale in seguito ad un principio di autocombustione.

Non è vero niente!

Ricordando che il romanzo è giunto alla pubblicazione vincendo un concorso indetto dall’editore, i sostenitori di questa tesi affermano che i sortilegi cifrati contenuti nel libro avrebbero “corrotto” la giuria dell’editore stesso. E perfino Marco Corona, autore dell’illustrazione in copertina, avrebbe utilizzato alcune formule nascoste nell’opera per aggiudicarsi il prestigioso Grand Guinigi, premio assegnato nel mese di novembre a Lucca Comics.

Sono soltanto voci!

“Vangelo secondo Carlo” è un semplice romanzo di narrativa che tratta una vicenda totalmente inventata e non contiene formule magiche né sortilegi di alcun tipo!!!

martedì 6 gennaio 2009

La scarcerazione di Mario Rossi

Per scrivere “Vangelo secondo Carlo” è stato opportuno adottare uno stile televisivo. E se un romanzo diventa una vicenda lunga abbastanza da riempire una trasmissione, un racconto è sufficiente, a malapena, per mettere in scena una notizia da tiggì. Il racconto in questione, fino ad ora inedito, è stato un tentativo di utilizzare lo stile narrativo del romanzo per qualcosa di più breve.

Nonostante sia febbraio, oggi sembra esplosa la primavera. A Cuneo come a Pistoia. Il cielo terso permette di ammirare l’arco alpino che, dall’orizzonte, giunge a lambire la forma trapezoidale della Bisalta, ancora innevata. Noi siamo a valle, nell’hinterland cuneese, davanti alla costruzione del Cerialdo.

Il carcere di massima sicurezza.

Sono presenti i colleghi della stampa nazionale, gli inviati delle televisioni, i reporter delle agenzie. Ma ci sono anche i curiosi, accorsi per l’evento del giorno. Certe signore in avanti con gli anni, che qua chiamano madamine, si sono messe in pompa magna per via delle telecamere. Ci sono i ragazzi delle superiori, chi fa gruppo con gli amici e chi s’imbarazza a tenere per mano la fidanzata. E poi pensionati, operai, contadini.

«Oggi ho chiuso il negozio», ci racconta un fruttivendolo, sulla quarantina. «Volevo vedere in faccia l’assassino!»

Ma lui, ancora, si nega.

La scarcerazione di Mario Rossi era prevista per la tarda mattinata ma, pare a causa di problemi burocratici, non è ancora uscito. Questo contribuisce ad aumentare l’emozione, sottolineata dal brusio della piccola folla che, di ora in ora, si fa più nervoso. Ma, per fortuna, oggi il clima è buono e fuori si sta bene. Nonostante sia ancora a febbraio, infatti, sembra già primavera. Una giornata di sole.

Come diciannove anni fa.

Era il 1989 e, a Serravalle Pistoiese, la primavera era finita da un po’. L’estate bruciava lenta, pacata, quasi esasperante. E strideva con le immagini dei telegiornali che mostravano l’allucinante sguardo del Rossi più famigerato d’Italia.

«Catturato nel pomeriggio il killer del jogging!», annunciava un giovane Enrico Mentana al telegiornale della Rai. «Il mostro si chiama Mario Rossi e sembra che abbia già confessato!»

Il mostro non aveva ancora confessato e non lo ha fatto mai, nemmeno dopo, in tribunale. Ma le prove erano schiaccianti e gli avvocati Di Gioia e Marchesi si sono dovuti arrendere. Mario Rossi, di Serravalle, accusato di tre omicidi, è stato giudicato colpevole della morte di due persone.

Il killer del jogging.

Mario Rossi, all’epoca dei fatti, aveva ventidue anni. Lo sguardo perennemente allucinato, il labbro leporino, i capelli scuri tagliati a scodella. La figura gracile, suo malgrado inquietante, entrata nell’immaginario degli italiani con l’irruenza di un pugno nello stomaco. Un ragazzo triste, senza amici, affetto da turbe psichiche fin dall’infanzia. Costretto da sempre al lavoro nei campi da un padre burbero, prepotente, brutale, Mario Rossi impara a parlare una sola lingua.

Quella della violenza.

Nel mese di maggio del ottantotto la campagna pistoiese si macchia per la prima volta di sangue. Si tratta di Giacomo Bruschi, un assicuratore di trentasei anni. Esce a correre, come fa d’abitudine per mantenersi in forma, sulle strade sterrate che dividono i campi tra Serravalle e Nievole. Il suo corpo viene ritrovato una settimana più tardi, nascosto sotto una catasta di legna, non lontano dalla proprietà dei Rossi. Il Borghi viene massacrato a badilate.

E’ solo il primo.

Pietro Tribulzio, uno psicologo di quarantadue anni, viene ucciso nel mese di novembre. Il cadavere viene ritrovato il mattino dopo, presso Serravalle, da due pescatori. Nell’aprile successivo, tra Monsummano e Nievole, scompare Margherita Buso, una studentessa di diciannove anni. Il corpo viene rinvenuto nascosto in un piccolo canale d’irrigazione.

Le tre vittime sono state massacrate con oggetti contundenti. Un badile per il Bruschi, un sasso per il Tribulzio, un bastone per la Busi. Tutti e tre vengono sorpresi dall’assassino mentre stanno facendo jogging.

E’ il finimondo.

Nella zona si diffonde la psicosi da serial killer. C’è paura di uscire, si sospetta di tutti, l’assassino potrebbe essere un amico, un collega di lavoro, il vicino di casa. Di più. Un comico, in televisione, scherza sull’impennata di vendite dei tapis roulant nel pistoiese.

Non c’è molto da ridere.

«Piovevano denunce da tutte le parti», ricorda il colonnello Fabio Storti, che ha diretto le indagini. «Molte in forma anonima, certo, ma c’era anche chi si firmava, convinto dell’esattezza delle proprie congetture.»

La polizia investiga.

Si analizzano i luoghi dove vengono ritrovati i cadaveri, si repertano indizi, si rilevano impronte di scarpe. La scientifica appura che i cadaveri sono stati uccisi altrove e trasportati sul luogo del ritrovamento in un secondo momento. Si trovano i segni di un carretto.

Si risale a Mario Rossi. Lavora nei campi, trattato come un servo dal padre, tale Giuseppe Maria Rossi. A Serravalle Pistoiese è conosciuto da tutti. Canzonato dai bambini, ma anche dai più grandi, viene considerato alla stregua di un paria. Si dice in giro, addirittura, che il padre abusi sessualmente di lui. Soltanto voci, malignità, ma forse no. Spesso lo si vede, lungo la strada che porta verso Nievole, con un carretto. Lo utilizza per trasportare fascine, attrezzi agricoli. Legna o rastrelli.

Bastoni o badili.

Le impronte nel terreno appartengono alle sue scarpe. La ruota che lascia le tracce è del suo carretto. Non ci sono dubbi. Arrestato nel mese di agosto dell’ottantanove, viene rinviato a giudizio già a ottobre. La sentenza di primo grado, poi confermata dalla Corte d’Appello, lo giudica colpevole degli omicidi Bruschi e Busi. Nel caso Tribulzio le prove avanzate dal pubblico ministero non sono considerate sufficienti e viene scagionato. La difesa di Di Gioia e Marchesi chiede la seminfermità ma la perizia è categorica.

Capace di intendere e volere.

Mario Rossi finisce in carcere nel dicembre del 1991. Deve scontare ventinove anni. Rinchiuso a Gaeta, nel ’93 viene trasferito a Cuneo. Cerialdo, carcere di massima sicurezza. Trascorrono gli anni, ci sono diversi sconti di pena per buona condotta. La sentenza viene mitigata in Cassazione, dove i giudici tengono conto delle particolari condizioni familiari del colpevole. Un altro piccolo abbuono è dovuto all’indulto promosso dalla legge Mastella.

Gli anni diventano diciassette e nasce la polemica.

«Parlo a nome delle famiglie Bruschi e Busi», dichiara Ferruccio Magni, il legale della parte civile. «La notizia della scarcerazione di Mario Rossi ci lascia sconvolti. Siamo tormentati dall’idea di poterlo incontrare in giro, per strada, di saperlo a piede libero nella nostra comunità.»

Molti condividono questo pensiero. Altri obiettano che la pena è stata scontata. Rifarsi una vita è un suo sacrosanto diritto. L’associazione Nessuno Tocchi Caino si è offerta di trovare a Rossi un alloggio, la sezione pistoiese del Partito Radicale si è fatta avanti per cercargli un lavoro.

Staremo a vedere.

Nel frattempo, qui, a Cuneo, l’attesa si fa estenuante. Gli avvocati Di Gioia e Marchesi sono venuti da Pistoia. C’è una Mercedes nera che lo aspetta. La gente vuole vedere.

La gente vuole sapere.

La gente vuole sapere com’è fatto un assassino seriale, uno che uccide senza un motivo, vittima suo malgrado di un padre padrone e una società ostile.

Ma chi è il vero colpevole?

Un genitore che lo tratta come una bestia, che ne abusa sessualmente come vogliono le dicerie e che, come hanno stabilito gli inquirenti, lo punisce con cinghiate sulla schiena? Oppure la società malata che tende ad emarginare il diverso, lo sfortunato, il miserabile? Ognuno di noi ha un suo granello di colpa che, accumulandosi addosso a Mario Rossi, ha formato un enorme mucchio di sabbia.

Ma attenzione, il cancello si apre.

L’avvocato Gennaro Di Gioia esce scortato dalla polizia penitenziaria. Ci sono anche diverse pattuglie dei carabinieri. Il brusio della gente scema in un silenzio assordante.

«Vi prego, fate passare», dice Di Gioia. Poi un’ombra scura attraversa il cancello. Le macchine fotografiche cominciano a scattare all’impazzata, gli inviati allungano i microfoni in avanti, qualcuno grida insulti al suo indirizzo.

Mario Rossi si ferma.

Il suo sguardo allucinato si posa sulla folla. I capelli sono diventati pochi e grigi, il labbro leporino cerca di nascondersi sotto la barba. Il fisico è asciutto, lo stesso di vent’anni fa, quando colpiva a badilate uno sconosciuto che stava facendo jogging.

«Cosa farai adesso?», gli chiede un reporter. «Chi ha ucciso Tribulzio?», gli domando io.

Lui non risponde. La sua faccia resta impassibile. Poi s’increspa, quasi a distendersi in un sorriso amaro.

«Grazie di tutto», dice. Poi abbassa il capo e si siede in macchina. Lo sportello si richiude e la Mercedes parte immediatamente, illuminata dai flash stroboscopici dei fotografi.

La folla indugia un altro po’, per digerire l’evento. Poi comincia a disperdersi. Mario Rossi è stato arrestato nel 1989. Allora non c’erano i telefonini e nemmeno internet, Berlino era divisa dal muro, l’impero sovietico e la federazione jugoslavia apparivano ancora sulle cartine geografiche, la musica si ascoltava su dischi di vinile e gli stipendi si pagavano in lire. Ma il linguaggio della violenza e la strategia del sangue, purtroppo o per fortuna, sono rimaste le stesse. Di allora, di sempre.

Da Cuneo è tutto, a voi la linea.

sabato 3 gennaio 2009

Sistema metrico decimale del cazzo


Scegliere una pistola per l’omicidio non è stato troppo semplice. Innanzitutto è un argomento che era completamente alieno all’autore. In secondo luogo occorreva, per il gioco della vicenda, trovare un’arma che fosse sufficientemente credibile e rispondesse a certe caratteristiche.

La pistola con cui Carlo si spara in bocca doveva essere a tamburo. Rivoltella, si dice. Poi occorreva un modello e una marca che, almeno per ipotesi, si potesse trovare nel giro delle armi illegali.

L’autore ha navigato per giorni e, soprattutto, notti su internet. E’ passato su vari siti e blog che trattavano l’argomento, spulciando nei forum. Alla fine la scelta è caduta sulla Manurhin, un costruttore transalpino che fornisce le armi alle forze dell’ordine francesi. Non è dunque sicuro che sia una pistola che possa essere reperita al mercato nero ma, quanto meno, è plausibile.

Non solo.

Durante la documentazione l’autore, per forza di cose, si è fatto pure due nozioni di balistica. Tipo che il calibro 38 americano corrisponde al nove millimetri europeo. Come diceva Vincent Vega in un celebre film, è colpa del «sistema metrico decimale del cazzo».

Queste informazioni, e molte altre ancora, sono state utilizzate dall’autore per redigere l’intervento dell’esperto balistico e se, come è facile pensare, qualche appassionato avrà modo di storcere il naso, l’autore chiede preventivamente scusa.

Ché Cristiano Della Bella è più pratico di vinile a trentatré giri che non di armi da fuoco.

Ed è senz’altro meglio per tutti.