Per scrivere “Vangelo secondo Carlo” è stato opportuno adottare uno stile televisivo. E se un romanzo diventa una vicenda lunga abbastanza da riempire una trasmissione, un racconto è sufficiente, a malapena, per mettere in scena una notizia da tiggì. Il racconto in questione, fino ad ora inedito, è stato un tentativo di utilizzare lo stile narrativo del romanzo per qualcosa di più breve.
Nonostante sia febbraio, oggi sembra esplosa la primavera. A Cuneo come a Pistoia. Il cielo terso permette di ammirare l’arco alpino che, dall’orizzonte, giunge a lambire la forma trapezoidale della Bisalta, ancora innevata. Noi siamo a valle, nell’hinterland cuneese, davanti alla costruzione del Cerialdo.
Il carcere di massima sicurezza.
Sono presenti i colleghi della stampa nazionale, gli inviati delle televisioni, i reporter delle agenzie. Ma ci sono anche i curiosi, accorsi per l’evento del giorno. Certe signore in avanti con gli anni, che qua chiamano madamine, si sono messe in pompa magna per via delle telecamere. Ci sono i ragazzi delle superiori, chi fa gruppo con gli amici e chi s’imbarazza a tenere per mano la fidanzata. E poi pensionati, operai, contadini.
«Oggi ho chiuso il negozio», ci racconta un fruttivendolo, sulla quarantina. «Volevo vedere in faccia l’assassino!»
Ma lui, ancora, si nega.
La scarcerazione di Mario Rossi era prevista per la tarda mattinata ma, pare a causa di problemi burocratici, non è ancora uscito. Questo contribuisce ad aumentare l’emozione, sottolineata dal brusio della piccola folla che, di ora in ora, si fa più nervoso. Ma, per fortuna, oggi il clima è buono e fuori si sta bene. Nonostante sia ancora a febbraio, infatti, sembra già primavera. Una giornata di sole.
Come diciannove anni fa.
Era il 1989 e, a Serravalle Pistoiese, la primavera era finita da un po’. L’estate bruciava lenta, pacata, quasi esasperante. E strideva con le immagini dei telegiornali che mostravano l’allucinante sguardo del Rossi più famigerato d’Italia.
«Catturato nel pomeriggio il killer del jogging!», annunciava un giovane Enrico Mentana al telegiornale della Rai. «Il mostro si chiama Mario Rossi e sembra che abbia già confessato!»
Il mostro non aveva ancora confessato e non lo ha fatto mai, nemmeno dopo, in tribunale. Ma le prove erano schiaccianti e gli avvocati Di Gioia e Marchesi si sono dovuti arrendere. Mario Rossi, di Serravalle, accusato di tre omicidi, è stato giudicato colpevole della morte di due persone.
Il killer del jogging.
Mario Rossi, all’epoca dei fatti, aveva ventidue anni. Lo sguardo perennemente allucinato, il labbro leporino, i capelli scuri tagliati a scodella. La figura gracile, suo malgrado inquietante, entrata nell’immaginario degli italiani con l’irruenza di un pugno nello stomaco. Un ragazzo triste, senza amici, affetto da turbe psichiche fin dall’infanzia. Costretto da sempre al lavoro nei campi da un padre burbero, prepotente, brutale, Mario Rossi impara a parlare una sola lingua.
Quella della violenza.
Nel mese di maggio del ottantotto la campagna pistoiese si macchia per la prima volta di sangue. Si tratta di Giacomo Bruschi, un assicuratore di trentasei anni. Esce a correre, come fa d’abitudine per mantenersi in forma, sulle strade sterrate che dividono i campi tra Serravalle e Nievole. Il suo corpo viene ritrovato una settimana più tardi, nascosto sotto una catasta di legna, non lontano dalla proprietà dei Rossi. Il Borghi viene massacrato a badilate.
E’ solo il primo.
Pietro Tribulzio, uno psicologo di quarantadue anni, viene ucciso nel mese di novembre. Il cadavere viene ritrovato il mattino dopo, presso Serravalle, da due pescatori. Nell’aprile successivo, tra Monsummano e Nievole, scompare Margherita Buso, una studentessa di diciannove anni. Il corpo viene rinvenuto nascosto in un piccolo canale d’irrigazione.
Le tre vittime sono state massacrate con oggetti contundenti. Un badile per il Bruschi, un sasso per il Tribulzio, un bastone per la Busi. Tutti e tre vengono sorpresi dall’assassino mentre stanno facendo jogging.
E’ il finimondo.
Nella zona si diffonde la psicosi da serial killer. C’è paura di uscire, si sospetta di tutti, l’assassino potrebbe essere un amico, un collega di lavoro, il vicino di casa. Di più. Un comico, in televisione, scherza sull’impennata di vendite dei tapis roulant nel pistoiese.
Non c’è molto da ridere.
«Piovevano denunce da tutte le parti», ricorda il colonnello Fabio Storti, che ha diretto le indagini. «Molte in forma anonima, certo, ma c’era anche chi si firmava, convinto dell’esattezza delle proprie congetture.»
La polizia investiga.
Si analizzano i luoghi dove vengono ritrovati i cadaveri, si repertano indizi, si rilevano impronte di scarpe. La scientifica appura che i cadaveri sono stati uccisi altrove e trasportati sul luogo del ritrovamento in un secondo momento. Si trovano i segni di un carretto.
Si risale a Mario Rossi. Lavora nei campi, trattato come un servo dal padre, tale Giuseppe Maria Rossi. A Serravalle Pistoiese è conosciuto da tutti. Canzonato dai bambini, ma anche dai più grandi, viene considerato alla stregua di un paria. Si dice in giro, addirittura, che il padre abusi sessualmente di lui. Soltanto voci, malignità, ma forse no. Spesso lo si vede, lungo la strada che porta verso Nievole, con un carretto. Lo utilizza per trasportare fascine, attrezzi agricoli. Legna o rastrelli.
Bastoni o badili.
Le impronte nel terreno appartengono alle sue scarpe. La ruota che lascia le tracce è del suo carretto. Non ci sono dubbi. Arrestato nel mese di agosto dell’ottantanove, viene rinviato a giudizio già a ottobre. La sentenza di primo grado, poi confermata dalla Corte d’Appello, lo giudica colpevole degli omicidi Bruschi e Busi. Nel caso Tribulzio le prove avanzate dal pubblico ministero non sono considerate sufficienti e viene scagionato. La difesa di Di Gioia e Marchesi chiede la seminfermità ma la perizia è categorica.
Capace di intendere e volere.
Mario Rossi finisce in carcere nel dicembre del 1991. Deve scontare ventinove anni. Rinchiuso a Gaeta, nel ’93 viene trasferito a Cuneo. Cerialdo, carcere di massima sicurezza. Trascorrono gli anni, ci sono diversi sconti di pena per buona condotta. La sentenza viene mitigata in Cassazione, dove i giudici tengono conto delle particolari condizioni familiari del colpevole. Un altro piccolo abbuono è dovuto all’indulto promosso dalla legge Mastella.
Gli anni diventano diciassette e nasce la polemica.
«Parlo a nome delle famiglie Bruschi e Busi», dichiara Ferruccio Magni, il legale della parte civile. «La notizia della scarcerazione di Mario Rossi ci lascia sconvolti. Siamo tormentati dall’idea di poterlo incontrare in giro, per strada, di saperlo a piede libero nella nostra comunità.»
Molti condividono questo pensiero. Altri obiettano che la pena è stata scontata. Rifarsi una vita è un suo sacrosanto diritto. L’associazione Nessuno Tocchi Caino si è offerta di trovare a Rossi un alloggio, la sezione pistoiese del Partito Radicale si è fatta avanti per cercargli un lavoro.
Staremo a vedere.
Nel frattempo, qui, a Cuneo, l’attesa si fa estenuante. Gli avvocati Di Gioia e Marchesi sono venuti da Pistoia. C’è una Mercedes nera che lo aspetta. La gente vuole vedere.
La gente vuole sapere.
La gente vuole sapere com’è fatto un assassino seriale, uno che uccide senza un motivo, vittima suo malgrado di un padre padrone e una società ostile.
Ma chi è il vero colpevole?
Un genitore che lo tratta come una bestia, che ne abusa sessualmente come vogliono le dicerie e che, come hanno stabilito gli inquirenti, lo punisce con cinghiate sulla schiena? Oppure la società malata che tende ad emarginare il diverso, lo sfortunato, il miserabile? Ognuno di noi ha un suo granello di colpa che, accumulandosi addosso a Mario Rossi, ha formato un enorme mucchio di sabbia.
Ma attenzione, il cancello si apre.
L’avvocato Gennaro Di Gioia esce scortato dalla polizia penitenziaria. Ci sono anche diverse pattuglie dei carabinieri. Il brusio della gente scema in un silenzio assordante.
«Vi prego, fate passare», dice Di Gioia. Poi un’ombra scura attraversa il cancello. Le macchine fotografiche cominciano a scattare all’impazzata, gli inviati allungano i microfoni in avanti, qualcuno grida insulti al suo indirizzo.
Mario Rossi si ferma.
Il suo sguardo allucinato si posa sulla folla. I capelli sono diventati pochi e grigi, il labbro leporino cerca di nascondersi sotto la barba. Il fisico è asciutto, lo stesso di vent’anni fa, quando colpiva a badilate uno sconosciuto che stava facendo jogging.
«Cosa farai adesso?», gli chiede un reporter. «Chi ha ucciso Tribulzio?», gli domando io.
Lui non risponde. La sua faccia resta impassibile. Poi s’increspa, quasi a distendersi in un sorriso amaro.
«Grazie di tutto», dice. Poi abbassa il capo e si siede in macchina. Lo sportello si richiude e la Mercedes parte immediatamente, illuminata dai flash stroboscopici dei fotografi.
La folla indugia un altro po’, per digerire l’evento. Poi comincia a disperdersi. Mario Rossi è stato arrestato nel 1989. Allora non c’erano i telefonini e nemmeno internet, Berlino era divisa dal muro, l’impero sovietico e la federazione jugoslavia apparivano ancora sulle cartine geografiche, la musica si ascoltava su dischi di vinile e gli stipendi si pagavano in lire. Ma il linguaggio della violenza e la strategia del sangue, purtroppo o per fortuna, sono rimaste le stesse. Di allora, di sempre.
Da Cuneo è tutto, a voi la linea.