"Vangelo secondo Carlo", il primo romanzo di Cristiano Della Bella. Un velocissimo noir di blunottiana ispirazione. Tespi Editore.

domenica 28 dicembre 2008

Mattafix


Nel romanzo si parla del concerto dei Mattafix all’Hiroshima Mon Amour. Un po’ reportage, un po’ racconto, questo pezzo è stato scritto per On Stage, la rubrica di musica dal vivo di Fatece Largo.

La fanza di fumetti de Roma.


07 febbraio 2006

Hiroshima Mon Amour, Torino

A poche ore dall’inaugurazione della ventesima olimpiade invernale ci muoviamo per le vie del capoluogo sabaudo e trovare la strada pare un terno al lotto. Corsie olimpiche, parcheggi zero, lo snervante pullulare delle auto poliziotte e i sottopassaggi chiusi per via dell’atletico happening.

Torino 2006.

Nemmeno l’Hiroshima pare più lo stesso ora che, con la legge Sirchia al primo anniversario, gli schiavi del fumo sono costretti ad andare all’addiaccio per consumare le loro pratiche nauseabonde. Non poterne fare a meno ribadisce che la sigaretta non è un semplice simbolo fallico, come sostiene l’ala estrema della propaganda non fumatrice, e dunque sostituirla con una tettarella di gomma non è una soluzione.

Fuori però fa freddo.

Mattafix non è il genere di musica che mi fa perdere la testa ma ci sono pur sempre dei ma con cui fare i conti. Ci troviamo qui, io e l’amico Vanni, per una strana serie di circostanze, e alla fine della fiera la serata non è da buttare.

Anzi.

Nonostante Big City Life ce l’abbia fatto a fette per forse quasi un anno, la band ha i suoi numeri e non si risparmia per mostrarceli. Dal vivo questi Mattafix hanno suoni potenti, coinvolgenti, senza esagerare. Alternano pezzi pop, sorta di Pet Shop Boys versione afro, con momenti da pakistano bruciato lento ma regolare.

La giovane età, poi, non preclude ai fanciulli di dimostrarsi in gamba nello scrivere come nell’eseguire e on stage anche il tormentone di cui sopra appare migliore, più profondo, quasi fragoroso. Peccato, invece, che l’intero stile sia, a mio giudizio, in contrasto con un eccessivo gusto per le rifiniture, per i dettagli, e parte dei cori campionati che quando li ascolti ti metti a scrutare le labbra dei musicisti per vedere se qualcuno di loro stia effettivamente cantando.

L’Hiroshima comunque è pieno e apprezza. I Mattafix tornano per il bis, la loro unica hit versione unplugged. Ma io e Vanni, che siamo due peggio schiavi del dio Fumo, usciamo fuori al gelo per peccaminare. Poi magari la nebbia, un giro ai Murazzi, una piadina da Gian Carlo e un funambolico ritorno a casa tra corsie olimpiche e discorsi di sorta.

giovedì 25 dicembre 2008

Anteprima per natale


Come regalo di natale, in anteprima il capitolo introduttivo del romanzo Vangelo secondo Carlo, in uscita a gennaio per Tespi Editore.

E tanti auguri.

Divinità del Sé Stesso.

In principio era il Nulla, eterno e sconfinato, incolore e insapore, inteso come assenza del tutto quanto. Mancava l’energia e mancava la materia, dunque era vacuo. Non c’era la luce ma nemmeno il buio e per questo era invece empio. E non lo si poteva toccare perché non c’erano mani che potessero toccare, non lo si poteva vedere perché non c’erano occhi che potessero vedere e non lo si poteva pensare perché non c’erano meningi che potessero ragionare. C’era solo il divino Sé Stesso che niente aveva di sacro e nemmeno di profano ma soltanto cosciente consapevolezza di voler essere da qualche parte in qualche tempo.

Ma non c’era tempo.

Il tempo lo creò il divino Sé Stesso quando volle vivere una vita come fosse un videogame per separare il Nulla che era venuto prima dal Nulla che sarebbe venuto dopo. E allora si finse carne in un universo virtuale che rispondeva alle leggi che lo stesso Sé Stesso aveva creato, per rendere più veritiero il gioco a cui si volle dedicare.

Quando questo accadde si materializzò il buio, cioè assenza di luce, e nel mezzo sorse la luce, cioè antitesi del buio. Il bene e il male, il giusto e lo sbagliato, l’acceso e lo spento. In ogni caso, comunque, la negazione del Nulla che fa rima con culla. Stantia ma divina. L’eterna tana del supremo Sé Stesso, unico e solo per definizione, annidato da nessuna parte.

La femmina aprì le gambe e lui ci infilò la testa dal di dentro, per venire alla luce. Il buio rimase indietro. Il Nulla era invece in un’altra dimensione, priva di numeri e parole, opere e omissioni.

Non era mai successo prima.

martedì 23 dicembre 2008

Lisa che veste sgargiante perché cupa dentro


Bionda, bassa di statura ma tremendamente bella. Così viene descritta nel romanzo Lisa, la fidanzata di Carlo. Toscana di Scandicci, Lisa Pollino scappa di casa insieme all’amica perché «il fiorentino c’aveva messo noia.»

Lisa è una figura triste, schiacciata dal peso degli eventi. Innamorata di un protagonista troppo grande per lei ne subisce le conseguenze. Perché è triste amare qualcuno che non si può amare ma, nelle questioni di cuore, la logica della ragione passa in secondo piano.

I personaggi di Lisa e Tania, le due amiche fiorentine che vanno in cerca di avventura, sono stati imbastiti su due ragazze realmente esistenti. Era il 1998 e l’autore si trovava in Toscana per la premiazione di Dio, atomi e sigarette, un racconto fantasy che gli fruttò una coppa tipo gara di bocce. Approfittò dell’occasione per passare un sabato sera a giocare ai Warriors di Walter Hill per le strade di Firenze, insieme ad un amico.

Massi, punk e tipografo.

Conobbero due splendide ragazze, Gaia e Giulia, o Maia e Giusi, difficile ricordare. La prima era bionda, bassa di statura, e tremendamente bella. La seconda era mora, di origini tedesche, il tipo di tipa che fa tipo. Passarono la serata a fare baldoria, tutti e quattro, tra libagioni alla vola di birre e limoncello che, come diceva Massi, alla fine t’ammazza.

Infatti uccise.

La serata morì alcolica sotto lo sguardo compiaciuto di una luna fottutamente piena, seduti laddove si dice sia stato messo al rogo il Savonarola, sotto la scritta Generali al neon che vibrava di luce fredda come la pubblicità in buca.

«Vesto sgargiante perché sono cupa dentro», disse Gaia, o Maia. E Dario, il dark di Settimo Torinese che nel romanzo descrive Lisa, riferisce parola per parola.

Perché, nonostante la realtà sia un poco avara di storie da raccontare, i personaggi migliori si trovano in giro. Per strada, in un bar o, come nel caso della fidanzata di Carlo, nel centro storico di una delle città più belle del mondo.

domenica 21 dicembre 2008

Il giorno dell'avvicinatore


Dovevate vederlo quel Della Bella che s’improvvisava approcciatore di celebrità. Vestito di pelle nera come un corvo della malasorte, s’accomodò in prima fila. Nello zaino aveva la macchina fotografica, un quaderno per prendere appunti, una bottiglietta d’acqua naturale. In testa aveva idee da terrorista, uno che sa cosa vuole ma non sa come ottenerlo.

In realtà il nostro eroe voleva imitare il celebre Prometeus, maestro dell’avvicinamento di brizziana memoria. Obiettivo del Della Bella era il volto familiare di Carlo Lucarelli, già scrittore noir e pure, con grande apprezzamento delle platee, conduttore della trasmissione televisiva Blu Notte. Nella testa del nostro c’era l’idea di conoscere lo scrittore parmigiano, scambiare una stretta di mano e consegnargli un volantino che reclamizzava il velocissimo noir di blunottiana ispirazione.

Vangelo secondo Carlo.

L’opportunità era scoccata, inaspettata come una tragedia, con la manifestazione Scrittorincittà organizzata a Cuneo, capitale della Granda. L’avvicinatore Della Bella, poco avvezzo a certi slanci verso le celebrità, s’era subito industriato per cercare ganci diciamo illustri che garantissero la buona riuscita dell’operazione. Una telefonata a Cristiano Godano, colto in prova in sala prove, gli aveva indicato la strada verso Alberto Castoldi, guru del Nuvolari Libera Tribù e piccola autorità politico-artistica locale. Castoldi l’aveva poi spinto verso gli organizzatori dell’evento e, per via telefonica, erano stati presi accordi.

Ma era naufragato tutto.

L’avvicinatore Della Bella si era ritrovato solo, di fronte all’immensità del solito Fatal Destino. Affondava nelle poltrone del cinema Monviso, consapevole di doversi sorbire un dibattito di tre ore con sei scrittori ed un critico cinematografico. Tanto per citare un fortunato lavoro del nostro, era un po’ come spingersi un cacciavite nella tempia.

Un millimetro alla volta.

Così Wu Ming 1 introduceva il discorso su NIE, la New Italian Epic, sorta di nebulosa che, secondo l’occhialuto intellettuale, andava a racchiudere parte della produzione letteraria italiana degli ultimi quindici anni. Poi i diversi autori dicevano la loro e se l’intervento di Lucarelli era breve e pulito, quello di Letizia Muratori risultava decisamente confuso. Fu la presa di parola da parte di Scurati, già visto nel salotto della Bignardi, a dare il colpo di grazia. Il biondo scrittore parve più soporifero di un flacone di cloroformio e, quando finalmente terminò l’intervento, la platea risultava totalmente anestetizzata.

Nel frattempo l’avvicinatore Della Bella fremeva sulla sua seggiola. Cangiava ripetutamente posizione, appoggiava il mento tra le mani, sudava freddo come un boiler fuori uso. Il dibattito, in sé, era pure interessante ma l’idea fissa di avvicinare Lucarelli metteva tutto in secondo piano.

Perfino la bella gnocca che venne a sedersi di fianco.

Era una femmina tutto d’un pezzo. Qualcuno la salutò chiamandola per nome.

«Ciao Simona.».

Il nostro rimase sul chi va là. Poi s’accorse della manina di Lucarelli, l’obiettivo della giornata, che si mosse per fare un salutino alla tipa – Simona – che ricambiò. L’avvicinatore Della Bella deglutì, col pomo d’adamo ad andare in su e in giù. Poi si rivolse alla donna.

«Scusa, tu sei Simona Vinci?», le chiese. L’altra rispose di sì, illuminandosi come un albero di natale il giorno di pasqua. M’ha riconosciuta, pensava probabilmente l’autrice di In tutti i sensi come l’amore. Certo che t’ho riconosciuta, pensò l’avvicinatore Della Bella, consapevole di trovarsi seduto accanto ad uno dei suoi scrittori preferiti, per di più femmina.

Pure gnocca.

Tuttavia il nostro quel giorno aveva un obiettivo senza tette ma con la barba. Quindi spense l’entusiasmo e ordinò ai globuli rossi di tornare nei ranghi.

Non solo.

Decise di tentare un approccio con la Vinci finalizzato al suo obiettivo. «Scusa, io avrei bisogno di parlare con Lucarelli e mi chiedevo se mi potessi dare una mano», disse l’inesperto con fare decisamente poco esperto.

Lei mangiò la foglia.

L’albero di natale si spense e Simona mostrò un cupo cipiglio tipo eterno riposo il giorno di ognissanti.

«Sssst, che voglio sentire», rispose.

C’era poco da sentire. Al microfono ci stava ancora Scurati che, se scriveva come parlava, sarebbe stato buono per le fiabe della buona notte. Poco dopo Simona riuscì a disimpegnarsi. L’avvicinatore Della Bella vide il sorriso burocratico di lei che chiedeva permesso e lasciava la sala.

«Merda, l’ho fatta scappare!», disse a se stesso.

Alla fine del dibattito, comunque, gli scrittori sul palco vennero presi d’assalto da vari avvicinatori improvvisati. Il Della Bella decise di lasciare il cinema e prepararsi per l’attacco vero e proprio. Infatti, se l’approccio con la Vinci aveva tradito una certa fretta d’intenti, da quel momento il nostro decise di usare la ragione.

Uscì in strada per fumare una sigaretta. Entrò in un bar, per mangiare un panino. Tornò al cinema Monviso per l’appuntamento serale in cui Lucarelli era nuovamente sul palco per presentare il suo libro sulla nave dei veleni.

L’avvicinatore tornò nella sua posizione in prima fila. Nei suoi occhi baluginava la determinazione. Lucarelli non sarebbe uscito vivo dal cinema senza aver scambiato due parole con lui. Di sicuro. Senza aver capito che stava per uscire Vangelo secondo Carlo, un noir raccontato come una trasmissione televisiva e che, da Blu Notte, aveva preso ispirazione.

Furono altri lunghissimi quarti d’ora, vissuti sudando freddo, tra brividi a fior di pelle e picchi di adrenalina. L’avvicinatore Della Bella ripassò mentalmente la strategia. La mia strategia è non avere strategia, recitava Bruce Lee nella sua testa.

Lasciò spazio all’improvvisazione.

Quando la presentazione del libro giunse al termine l’avvicinatore s’infilò veloce lo zaino in spalla e fece due balzi verso il palco. In mano reggeva L’ottava vibrazione e una matita matita per prendere nota. All’interno del libro era stato preparato, piegato in quattro, il volantino che pubblicizzava il Vangelo secondo Carlo.

Poi tutto accadde in fretta.

Numerosi fans s’accalcarono verso Lucarelli per un autografo. Tutti avevano un libro del parmigiano in mano e una matita biro per farsi firmare una dedica.

«Scusi», disse l’avvicinatore, avvicinandosi da tergo. «Volevo parlarle del mio libro, che esce a fine anno. Credo che la cosa le potrebbe interessare.»

Lucarelli rimase in ascolto. In tivù sembrava più alto. Dal vivo, senza i truccatori della Rai, era più umano. Privo pure del suo sguardo inquieto che infilava nelle telecamere come se fosse una pistola spianata. Anzi. Sembrava quasi timido, sorrideva compiaciuto, parlava in modo normale e non come un automa, come faceva in tivù.

L’avvicinatore consegnò il volantino a Lucarelli che, in cambio, gli diede un indirizzo e-mail. Poi i due si salutarono con una stretta di mano.

Il nostro uscì dal cinema Monviso con la consapevolezza di avere fatto il proprio dovere. Probabilmente l’operazione non avrebbe portato da nessuna parte. Chissà. Ma era una cosa che andava fatta e lui, vestito di pelle nera come un corvo della malasorte, l’aveva fatta.

Anche se.

Anche se forse sarebbe stato meglio andare a cena con Simona Vinci e restare a guardarla sorridere da vicino. Come dire

a tu per tu.

venerdì 19 dicembre 2008

La santificazione letteraria della tivù

Non sono uno scrittore e, forse, nemmeno un lettore di noir. Prima di scrivere il romanzo mi sono procurato un libro sul genere, tra letteratura e cinematografia, per saperne di più. Ma l’idea non mi andava. Guardare indietro è importante ma poi preferisco camminare in avanti.

Attraverso la tivù.

Molti dicono di odiare la televisione, considerata leggera, sciocca, frivola. Dichiarano di preferirla spenta, di guardare solo telegiornali e film. Ma non è vero. Nemmeno a me piace il piccolo schermo ma bisogna ammettere che la nostra generazione è cresciuta davanti alla tivù che, di conseguenza, ha influito molto sul nostro background.

Non solo.

Prendiamo uno scrittore come Carlo Lucarelli. Ha pubblicato numerosi romanzi, alcuni pure di successo. Ciò che lo distingue da un Andrea De Carlo, da un Ammaniti, da un Benni, è però il suo volto televisivo. Uno scrittore che conduce una trasmissione di successo fa un balzo in avanti verso un’inossidabile celebrità.

Dunque.

Se Lucarelli attinge dai casi di cronaca nera per romanzare una trasmissione io ho pensato di prendere una storia completamente inventata e raccontarla come una trasmissione televisiva.

Mettere una trasmissione sulla pagina stampata è stato, per me, un modo per santificare il mezzo televisivo. Gli ho voluto concedere la sacralità letteraria. Avrei potuto ambientare una storia in ambito televisivo, ma non sarebbe stato lo stesso. Ho preferito raccontare la vicenda come sarebbe apparsa in tivù. Ho voluto cioè mostrare il modo in cui la mia generazione ha imparato ad ascoltare storie. Attraverso una serie di interviste di chi è stato testimone di fatti inerenti alla vicenda.

Ma l’importanza della tivù va oltre.

La televisione fornisce informazioni, conoscenza, cultura. Unisce di popoli lontanissimi tra loro che si trovano ad assistere, contemporaneamente ma in posti diversi, allo stesso evento. Tuttavia la televisione ruba la creatività, la diversità, omologando le culture, rendendole simili e, indubbiamente, impoverite.

Nel 2008 Wu Ming 1 pubblica on line un memorandum riguardo la New Italian Epic. Secondo me non c’è niente di più epico, nel bene e nel male, della televisione. E’ il collante di tutti i popoli, all’unisono, nel medesimo istante. Lo dimostrano anche i messaggi di Bin Laden, che non si perde nella pagina scritta per redigere il suo mein kampf ma preferisce brevi discorsi filmati da trasmettere in tivù. L’epica televisiva raduna le genti, arringa le generazioni, porta nelle case quanto succede nel mondo.

Che sia tutto vero, poi, non ha nemmeno importanza. Perché sul piccolo schermo le cose scivolano, sono tangibili finché sono in trasmissione, on air si dice. Poi finiscono nel limbo delle cose passate e, come i sogni, perdono smalto e lucentezza in modo abbastanza rapido. Tipo che un partito politico litiga in modo irreversibile con l’alleato di sempre, salvo presentarsi pochi giorni dopo alle elezioni anticipate nuovamente insieme.

Non ricorda Orwell?

L’errore, a mio avviso, è prendere il mezzo televisivo sotto gamba. Il piccolo schermo è in grado di controllare i popoli, cambiare i governi, inventare crisi economiche e, subito dopo, minimizzarle. Un potere vero, reale e micidiale mascherato da intrattenimento in cui perfino gli spazi pubblicitari, concepiti come fonte di guadagno, hanno il ruolo di stemperarne i toni. L’undici settembre non è poi così grave se, tra un Boieng che s’infila in un grattacielo e lo stesso grattacielo che crolla in macerie passa uno spot che reclamizza preservativi.

Secondo me, quindi, era giusto dare alla tivù un suo piccolo spazio letterario. Il mio tentativo, nato come un banale esperimento, è stato quello di mettere, letteralmente, la tivù nero su bianco. Per farlo ho dovuto trovare uno stile diverso, per certi aspetti pure nuovo. Ma non è stato difficile perché il linguaggio televisivo fa parte, che io lo voglia o meno, della mia cultura.

Il risultato è Vangelo secondo Carlo. Un noir diverso. Una vicenda raccontata nel momento in cui tutto è già avvenuto. Un’inchiesta ricordata dalle parole degli investigatori, degli specialisti, degli amici della vittima, dei testimoni. Un modo, si diceva, per concedere alla televisione la santificazione letteraria e anche, mi piacerebbe sperare, per scrivere un noir che possa essere qualcosa di più.

Un libro che guarda indietro ma che vorrebbe provare a camminare in avanti.

mercoledì 17 dicembre 2008

La copertina blu


Cristiano Godano cantava di volere una figa blu mentre i ragazzi del bar Sport se ne stavano a fumare Diana blu e Marco Corona attraversava la provincia alla guida di una Dyane blu.

Lo conobbi facendo autostop.

Marco Corona era un buon nome e cognome, non tanto per un paparazzo quanto invece per uno chef che ti disegna un sanguinolento paté di cazzo. Erano tempi in cui ancora capitava di incontrarci sulla pista del Macabre e, col ritmo frenetico di Don’t call me white, fingevamo di fare rissa avvinghiati per terra in mezzo al pogo. Più tardi collaborammo per la realizzazione dei 22 tarocchi del cazzo.

Transfuga, prima in Colombia e poi a Roma, Marco Corona disegna fumetti. L’idea di affidargli la copertina del romanzo è sorta spontanea e lui ha detto subito di sì. Mi ha chiesto cosa volevo. Ci sono scritti che nascono già con un’immagine ben precisa, rappresentativa del contenuto. Vangelo secondo Carlo, invece, era privo di iconografia. L’unico punto fermo che mi girava in testa era il colore di fondo che doveva andare sul blu.

Messo alle strette trascorsi una mattinata a fotografare il mio braccio sinistro che impugnava una pistola e a ritoccare le immagini al computer per inserirle su uno sfondo di metafisico blu.

Ma l’idea non era buona.

La copertina di un romanzo è importante. E’ una specie di biglietto da visita, è la parte visiva che va ad associarsi al titolo e che si fissa poi nella memoria. Quando si pensa ad un libro letto non c’è soltanto il contenuto ma anche l’immagine sulla confezione.

Ho molta fiducia nelle arti di Marco Corona.

Restammo a discutere per telefono. Pensammo di utilizzare la scena del ritrovamento del cadavere, con cui comincia il romanzo. Inviai a Corona i primi capitoli e gli dissi che volevo comunque tanto blu. Valutammo quale fosse la giusta sfumatura. Lui si procurò un cartoncino di quel colore sopra il quale avrebbe dipinto la scena. Gli dissi che l’immagine proseguiva oltre il dorso, continuando sulla quarta di copertina, come Somewhere in time degli Iron Maiden. Lui mi fece prendere le misure di un libro della stessa collana, per farsi un’idea. Era una domenica di ottobre e Marco Corona lavorò febbrilmente per l’intero pomeriggio.

Realizzò.

La creazione era un’opera d’arte. Solare ma sinistra. Si vedeva la Mercedes col lunotto posteriore insanguinato ritratta nell’estrema periferia torinese, sotto il sole di novembre. Il blu era il cielo limpido del mattino che, nel dipinto, risultava assai drammatico.

A me piacque. All’editore pure.

Nel frattempo, la domenica successiva, Marco volava a Lucca per la rassegna sul fumetto. Il Corona veniva incoronato col Gran Guinigi come migliore autore unico: la categoria dei fumettari che firmano sia i disegni che la sceneggiatura.

Forse il mio libro gli aveva portato fortuna.

Così mi accendo una Diana blu e ripenso alla Dyane blu sulla quale, quasi vent’anni prima, avevo conosciuto Marco Corona. Sarebbe un bel nome e cognome, non tanto per una nuova marca di birra quanto invece per un cantante stile dada. Si esibisce coi Nazighei per fare Giallo limone che, davvero, con la copertina blu non centra un catetere.

lunedì 15 dicembre 2008

Lettera ai Telespettatori


Nel romanzo si trovano alcuni passaggi in cui viene utilizzato un linguaggio clonato dalle Sacre Scritture. La cosa era già stata presentata in un racconto molto breve, qui riportato nella versione apparsa sul sito www.homoscrivens.it.


Dal Terzo Testamento

«E, apocalittico, verrà il tempo in cui le catastrofi si sommeranno una sull’altra, numerose. La terra tremerà tellurica, i vulcani vomiteranno fuoco, i flutti s’alzeranno torbidi per sommergere le vostre città. Voi, miserabili, vedrete tutto questo e cercherete invano una spiegazione.

Ma non capirete nulla.

E allora, davanti a voi, apparirà la Santissima Trinità. Sarà il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, uno e trino e tre in uno. Prenderà posto davanti alle telecamere, elegante come il vostro gusto vorrà imporre. Vi guarderà negli occhi, si schiarirà la voce e vi annuncerà la Rivelazione. E voi ascolterete attenti, e cercherete di comprendere ma, ottusi fino in fondo, vi lascerete confondere dagli sponsor, dal sensazionalismo, dai fiumi di parole di chi, ancora, vorrà dibattere per fare polemica.

E quando, disperati, vi accorgerete della Fine, quando voi morirete, quando moriranno i vostri figli, la vostra gente, la vostra stirpe e la vostra razza tutta, cari signori Telespettatori, sarà ormai troppo tardi.

Brandelli di carne morta su cui argomentare in eterno.

Così è scritto. Così sarà.

Buonasera.»

martedì 9 dicembre 2008

Carlo Battisti è vivo

Nonostante venga ritrovato cadavere nella sua auto all’inizio del romanzo, Carlo Battisti è vivo e vegeto! Il personaggio del protagonista è stato infatti cucito sulla figura di un mio caro amico che, al momento in cui scrivo, se la spassa, se la ride, se la gode.

Di santa ragione.

Il vero Carlo, la cui identità deve rimanere segreta, è bello, ricco e fottutamente yeah! Un po’ come il Carlo della finzione. Io mi sono limitato ad amplificare certe caratteristiche della sua già iperbolica personalità, accentuandone alcuni aspetti, a volte anche di molto, in modo da creare il protagonista che serviva alla vicenda.

In realtà tutti i personaggi del romanzo sono persone vere. Questo mi permette di visualizzarli, di entrarci in contatto, di interagire. Parlare di cose vere, realmente accadute, di persone vere, realmente esistenti, conferisce allo scritto una palpitante vitalità. Il fatto che poi la vicenda sia totalmente inventata ha poca importanza.

Come Carlo.

E’ una persona reale che nel libro muore. Fuori dalla finzione letteraria, poi, questa continua la sua vita. Il vero Carlo è bello, ricco, un po’ meno giovane. Acuto nei ragionamenti e sarcastico, a volte, nelle sparate. E’ un uomo della notte, un angelo maledetto, uno che una volta si è sniffato qualcosa di buono, mi ha guardato dritto negli occhi e mi ha detto

«Sai Cris, nonostante la tua omofobia ti trovo molto pop!»

Anche lui è molto pop, leggermente lisergico, tra scatti di adrenalina pura che s’alternano a pause abbastanza notorious.

La scelta del nome, Carlo appunto, è stata invece fatta in onore di Lucarelli. Dal conduttore della trasmissione televisiva Blu Notte ho voluto prendere spunto per fabbricare l’io narrante e l’omaggio del nome di battesimo dato al protagonista intende essere una sorta di ringraziamento.

Non solo.

Carlo è anche quel caro amico che mi teneva il posto sul pullman e che, sparando cazzate, volle parlarmi della divina immaginazione. Insomma, un romanzo cominciato con Carlo che finisce, tanti anni dopo, con un altro Carlo.

Come dire che sempre il cerchio si chiude.

venerdì 5 dicembre 2008

La febbre del sabato sera

La mia amica quando ride ha il vizio di mettersi una mano davanti alla bocca. E risulta ancora più simpatica. La mia amica si chiama Manuela.

Ma, così come il mondo, anche la mia rubrica telefonica è piena di Manuele. Ho perciò deciso, per distinguerla dalle altre, di chiamarla Manu Dread.

Dread perché una volta la mia amica Manuela portava le ciocche di capelli arrotolate in lunghissimi dread di colore rosso.

Manu Dread ha letto una prima volta “Vangelo secondo Carlo” e le è piaciuto assai. Poi un sabato sera che doveva uscire per fare bisboccia, è stata colpita dal peggio stato febbricitante della porca miseria.

E’ riuscito a placarlo con un cocktail farmaceutico degno del dottor Jeckyll. Ma di uscire, Manu Dread, non ne ha più voluto sapere.

E, siccome la televisione del sabato sera fa abbastanza schifo, la mia amica Manu Dread ha pensato di rileggere il romanzo.

Manu Dread si è munita di penna a biro di colore blu e si è messa ad analizzare il manoscritto con pazienza certosina, ragionando sul come e perché, srotolando matasse per poi riavvolgerle, nel tentativo di cercare delle incongruenze. Correggere un manoscritto, per certi versi, è meglio della Settimana Enigmistica.

Il giorno dopo mi ha telefonato.

Il manoscritto che avevo dato a Manu Dread era costellato di segni blu con le sottolineature per circoscrivere gli errori ortografici, perfino troppi secondo me, e madornali sviste narrative.

Tipo.

Carlo, il protagonista, è iscritto alla facoltà di ingegneria informatica. Ma, in alcuni passaggi, chissà perché, Carlo studia psicologia. Il padre di Carlo nelle prime pagine si chiama Osvaldo, poi diventa Anselmo, poi ritorna Osvaldo.

La mia amica Manu Dread mi ha poi spiegato che un bambino nato a dicembre, cioè dopo le vacanze estive, a sei anni fa già la prima elementare mentre io scrivo che a quell’età Carlo è ancora l’asilo. Questo si spiega perché sono di marzo.

Un pesce, cioè.

L’aiuto della mia amica Manu Dread è stato molto prezioso ed è piovuto inaspettato dal cielo grazie alla sua buona volontà e alla sua perspicacia particolarmente femminile. E poi, è chiaro, c’è pure il merito della febbre del sabato sera.

lunedì 1 dicembre 2008

Quel ramo dell'editore di Roma


Tespi era quel ramo dell’editore di Roma che ancora stava dietro l’angolo. Nicola Pesce era diventato celebre nella pubblicazione di fumetti e l’idea di tentare la via letteraria era stata un autentico colpo di genio.

La via letteraria del Pesce si chiamò Tespi Editore.

Dunque, mentre don Abbondio su quel ramo del lago di Como ci trovò due bravi un poco cattivi, su quel ramo dell’editore di Roma don Della Bella incontrò un concorso per romanzi inediti finalizzati alla pubblicazione.

Partecipò.

Secondo i registri dell’archivio Dellabelliano, “Vangelo secondo Carlo” era in attesa di un’occasione propizia da nove mesi, ventidue giorni, tre ore e diciassette minuti. Senza indugiare oltre, perciò, l’opera fu spedita secondo le dettagliate procedure imposte dai regolamenti.

Nell’estate del 2008, sul sito di Tespi Editore, apparve una prima classifica in cui “Vangelo secondo Carlo” risultava incluso nella ristretta cerchia dei finalisti. Don Della Bella, lungi dal sobbalzare di gioia come un robottino tarato male, preferì trincerarsi dietro una pacata soddisfazione tra le virgolette aperte di un mai superato nichilismo.

«Vedremo», disse a sé stesso.

Chi verrà vedrà. Cristiano Della Bella venne, vide e, per chissà quale fortuita ma determinante congiunzione astrale, vinse. Era un disonesto pomeriggio di settembre, in cui l’autore registrava l’invasione domestica di un manipolo di idraulici delicati quanto un commando del KGB quando, inaspettato e sconvolgente, giunse il dispaccio telefonico della Tribuiani.

Giorgia Tribuiani, già autrice tra le file di Tespi Editore, interpretava anche il ruolo di editor. Fu la sua voce, allegra nonostante la solennità del momento, a comunicare a don Della Bella che il suo “Vangelo secondo Carlo” aveva vinto il concorso.

Punti di sospensione.

Il nostro visse giorni d’incredulità quasi solida, senz’altro stolida. Ci furono perfino momenti in cui, nella propria testa, si mise in dubbio non soltanto il significato delle parole udite al telefonino, ma anche che quella comunicazione ci fosse mai stata. Tre volte al giorno ci si collegava a www.tespi.it per leggere, nero su bianco o viceversa, una conferma scritta di tale prestigioso ma ancora incredibile evento.

Finalmente il sito venne aggiornato e, con esso, apparve il comunicato che sanciva, burocratizzava e rendeva ufficiale la vittoria di “Vangelo secondo Carlo”. A quel punto don Della Bella cominciò a sognare un brucio d’asfalto sulle autostrade che portano al limbo degli scrittori che pubblicano.

Non solo.

Pochi giorni dopo un messaggero postale consegnò a don Della Bella il contratto editoriale da controfirmare. Il matrimonio s’andava a fare. Era dai tempi de “I promessi sposi” che un italiano nato il 7 marzo non pubblicava un romanzo.

Tespi Editore non era Lucia Mondella, ma Giorgia Tribuiani forse è pure meglio.