Tremava informe sotto il maglione grigio che Lei gli aveva comprato, un paio di mesi prima. Credere ai propri occhi era come spingersi un cacciavite nella tempia, un millimetro alla volta.
C’era da impazzire.
Dispose le candele, con cura. Sul pavimento, molte. Sul comodino, altre. Sulla cassettiera settimanale, perfino. Di elettricità non voleva più saperne. La fioca fiamma gli ricordava la vita. Bastava un soffio per spegnerla, eppure uccideva anche le candele più massicce con esasperante lentezza, un millimetro alla volta. La cera scivolava via come ricordi felici ormai lontani. Nonostante il sole splendesse alto nel cielo del primo pomeriggio, in quella casa il nero regnava sovrano. Il buio degli angoli nascondeva gli spettri del domani ormai frantumato. Le speranze erano andate, come fuochi bruciati troppo in fretta.
Restava la cenere, nascosta nel buio sotto i mobili.
Col fiammifero in mano, Lui accese le numerose candele disposte attorno. Le tapparelle abbassate condensavano il buio in qualcosa di freddo e spigoloso. Le candele accese bagnavano di luce soffusa, calda ma triste.
Come rendersi conto che tutto è finito.
Tutto era finito quando il giorno era appena al debutto, poche ore prima. Lei si era alzata e gli aveva dato un bacio. Lui si era limitato a voltarsi dall’altra parte del letto, per dormire ancora un poco. Ed era successo.
Lei aveva fatto il bagno. Prima faceva la doccia ma, da quando era entrata nel quarto mese di gravidanza, aveva cominciato a fare il bagno. Era più comodo, più sicuro. E a Lei piaceva un sacco.
Le piaceva l’idea di sedersi nella vasca da bagno, coccolandosi il grembo in cui maturava il Figlio. Quando Lei stava seduta nella vasca sentiva i piedi del feto che puntavano sulla pancia ed era una bella sensazione.
L’apoteosi della felicità.
Quella mattina c’era forse troppa acqua nella vasca. O magari Lei si era mossa per prendere qualcosa. Poteva essere scivolata, spostando la massa d’acqua. L’acqua era straripata oltre il bordo smaltato della vasca, aveva inzuppato il tappetino, ed era corsa sulle piastrelle azzurre del pavimento come un fiume in piena.
Fino all’angolo sotto il lavandino.
Sotto il lavandino Lei aveva l’abitudine di lasciarci la piccola stufa elettrica perché, in quel appartamento in affitto, l’impianto di riscaldamento non era un granché. Prima di fare il bagno Lei accendeva sempre la stufa, che lasciava in funzione durante l’abluzione.
La stufa era vecchia, quasi obsoleta.
L’acqua giunse fino a lambire la carena di plastica grigia della piccola stufa. Attraverso il vorticare della ventola si poteva vedere la serpentina di tungsteno baluginare d’un rosso cupo incandescente.
Il dielettrico si ruppe.
Zigzagando, la scarica elettrica percorse la superficie bagnata del pavimento e si riversò demoniaca nella vasca da bagno. Tutto quanto esplose nei fumi di una folgorazione a due e venti. Le fiamme dell’inferno nell’era moderna.
Presa di sorpresa, Lei non poté reagire. Si lasciò bruciare fino all’ultimo, trapassando all’istante. E, con Lei, il Figlio, vittima suo malgrado prima ancora di essere nato. L’acqua evaporò, il pavimento in alcuni tratti s’asciugò, e il corto circuito finalmente s’interruppe.
Lui si svegliò ma era tardi.
Lui la trovò già defunta, nella vasca da bagno. E vani furono i richiami, le urla, le lacrime, l’amorevole pena con cui s’inzuppò per prenderla in braccio, per trasportarla in camera da letto, per cercare di riportarla in vita e fare in modo che fra qualche domani Lui, Lei e il Figlio potessero anche perfino scherzare sopra l’incidente.
Inutili furono le confuse nozioni di pronto soccorso che Lui cercò di ricordare e di mettere in atto per aiutare la sua Lei a tornare indietro dal tunnel, un millimetro alla volta. Inutile fu sacramentare e chiedere pietà, tirare in ballo il destino e le divinità, promettere fioretti dal sapore infantile e fare voti d’ogni sorta di redenzione.
Gli occhi di Lei continuavano a stare chiusi.
Ci vollero ore intere per rendersi conto che Lei non avrebbe respirato più. Che non gli avrebbe più raccontato di quando era bambina. Che loro due non avrebbero più letto insieme i titoli di coda di un film preso a noleggio.
Ci vollero ore perché Lui prendesse coscienza d’essere rimasto solo al mondo.
Le asciugò i capelli, pettinandoli in boccoli biondi, aperti come raggi di sole sul cuscino. La vestì con l’abito pre-maman che a Lei piaceva di più. Era un vestito chiaro, quasi bianco, costellato di fiorellini rossi e qualche filo di verde.
Le mille fiammelle delle candele bruciavano assieme, come un’orchestra di luce fioca. Vibravano all’unisono, ad ogni più timido movimento di Lui che, ora, impugnava un coltello.
Perché voleva sapere.
Voleva sapere se il Figlio sarebbe stato Cesare oppure Elisabetta. Ne avevano discusso a lungo, Lui e Lei, e alla fine avevano scelto di non farsi dire il sesso del Figlio. Se fosse stato un maschio l’avrebbero chiamato Cesare, se invece femmina sarebbe stata Elisabetta.
“Così le amiche la potranno chiamare Elisa o Betta”, ripeteva spesso Lei, col viso acceso da un fantastico sorriso.
Pensare al presente col passato e al futuro col condizionale era di per sé immensamente doloroso e dunque Lui cercò di scacciare ogni ulteriore pensiero. Poi le alzò il vestito e le baciò il ventre già freddo, poco sopra gli slip.
Là dove la pelle bianca s’alzava a collinetta per contenere il nascituro.
Appoggiò il coltello in corrispondenza dell’ombelico. La pelle cedette alla lama affilata, aprendosi in taglio. Il sangue prese a trasudare dalla ferita, disegnando ragnatele rosse sul pancione di Lei.
Lui deglutì.
La lama scese piano, un millimetro alla volta, verso il basso. La mano di Lui, scossa dal tremito del peccatore, cercava di scendere in linea retta, ma forse deviò un poco verso sinistra.
Non aveva importanza.
Quando il taglio affilato del coltello giunse nel punto in cui Lui prima aveva posato un bacio, si fermò. Il sangue gocciolava ora fra le gambe di Lei, macchiando di rosso i candidi slip.
Erano mesi che non aveva il ciclo, pensò Lui, ebbro di follia.
Infilò le dita nel taglio, mordendosi un labbro per superare il ribrezzo dell’atto che stava compiendo. Le dita cominciarono a muoversi, a tastare, brulicanti come zampe d’insetto, per cercare l’appiglio, per aprirle il ventre, per allargare il taglio in modo da poterci guardare dentro.
Un cesareo artigianale.
Le dita di Lui presero a scivolare nel viscido delle carni molli di Lei. Le unghie graffiavano le mucose. Brandelli di tessuti organici andarono ad accumularsi sotto di esse, strappandogli un gemito.
Con le mani appiccicose di rosso, Lui tornò ad impugnare il coltello per affondarlo nel ventre ancora gravido.
Spinse la lama più in profondità.
Un millimetro alla volta.
Giudicò la voragine, finalmente, adatta per pescarci dentro. Ci infilò la mano destra, annaspando come in cerca d’un appiglio. Le lacrime gli rigavano gli zigomi ma Lui non se ne accorse. Poi tastò qualcosa che poteva essere un piede, di dimensioni assai piccine.
Il Figlio.
Questo gli fornì nuove forze per procedere. Allargò la ferita, in modo da infilarci entrambe le mani. Non bastava. Prese nuovamente il coltello e, con la follia disegnata drammatica negli occhi, sventrò il cadavere della moglie fino alla bocca dello stomaco.
Infilò la mano destra di sopra, facendosi spazio tra gli intestini, e spinse con forza. La mano sinistra tirava per il piede (del Figlio) e, nonostante tutto fosse scivoloso, ributtante, esasperato, alla fine Lui ci riuscì.
Un millimetro alla volta, la fece in qualche modo partorire.
Le fioche fiammelle delle candele tremarono insieme.
E Lui alzò il corpicino, dannatamente piccolo, col cordone ombelicale che ancora lo teneva ancorato al ventre materno ora slabbrato. Col coltello, Lui lo recise.
Poi guardò tra le gambe per sapere.
E seppe.
Tornò ad abbassare il vestito pre-maman sulle gambe di Lei. Il rosso del sangue ora copriva i fiori e i fili del disegno sulla stoffa. Lui mise il Figlio tra le braccia di Lei, come se dovesse allattarlo.
Ma sterili erano ormai quei capezzoli turgidi e freddi.
Lui si posò la punta del coltello in grembo e si lasciò accovacciare in avanti, con la lama che cominciò a penetrargli tra le viscere, lentamente.
Un millimetro alla volta.
E una candela alla volta s’andava spegnendo, il buio riconquistava via via gli spazi della stanza, il rosso del sangue che faceva da culla al Figlio, diventava sempre più cupo, come tenebra aperta per accoglierli tutti e tre.
Uno alla volta.
E il dolore fisico inebriò la mente straziata di Lui che, continuando a piegarsi verso l’abbraccio di Lei e del Figlio, ebbe il tempo di pensare che nessuno avrebbe potuto chiamarla Elisa o Betta.
Poi perse coscienza e, infine suicida, spirò.
(Pubblicato nell’antologia «NULLA E’ PER SEMPRE – 59 ultimi respiri», Giulio Perrone Editore, Roma, 2006)